di Stefano Cavallito e Alessandro Lamacchia
L’associazione fondata da Carlo Petrini negli Anni 80, quelli in cui la velocità cominciava a diventare “la nostra catena”, ha rinnovato il Comitato esecutivo, che nei prossimi anni contribuirà a determinarne le sorti. Progettando il cambiamento che verrà.
Circa un mese fa, l’assemblea dei soci di Slow Food Italia ha votato i membri del Comitato esecutivo che nei prossimi quattro anni contribuirà a determinarne le sorti. I cinque membri, come essi stessi scrivono nelle loro biografie, hanno incrociato le strade con quella di Slow Food in anni prossimi al 2010. Uno di loro, Giacomo Miola, è nato nel 1981. Non è più un ragazzino, nemmeno nel paese dei cocchi di mamma, ma un uomo maturo che eppure aveva due anni quando nacque Arci Gola, poi Arcigola, poi Slow Food. Ad alcuni sembrerà cronaca, ad altri archeologia gastronomica, ma Slow Food ha vissuto la sua infanzia in tempi in cui esistevano il Pci e il muro di Berlino, gli ultimi lacerti sfrangiati del terrorismo e i primi calici della Milano da bere. Destra. Sinistra. Dieci anni prima della canzone di Gaber, c’era ancora desiderio di appartenenza e Arcigola, quale lega gastronomica dell’Arci, aveva chiaro il suo posizionamento politico.
“Solo che – dice Carlin Petrini, che incontriamo a margine di un convegno dal titolo evocativo, Il futuro non è un pranzo di gala (e neppure, si sa, la rivoluzione) – ci avevano preso per i vivandieri della sinistra, come quelli che dovevano badare che si mangiasse bene ai festival dell’Unità. Ma cosa parlano della toma, quelli lì? Ci snobbavano come inutili utopisti”.
È difficile credere che i primi arcigolosi avessero “previsto tutto questo”, e le mille diramazioni di Slow Food nel mondo, ma certo nutrivano sin da allora quella idea romantica che il cibo fosse lavoro, letteratura, musica, convivialità e dunque cultura, strappando così la gastronomia dai circoli esclusivi di decadenti e viziati crapuloni. È del 1989, a Parigi, la pubblicazione del manifesto internazionale di Slow Food con cui Arcigola lentamente abdicava al suo nome da Casa del Popolo e denunciava al mondo che “la velocità è diventata la nostra catena, tutti siamo in preda allo stesso virus: la fast life, che sconvolge le nostre abitudini, ci assale nelle nostre case, ci rinchiude a nutrirci nei Fast Food”.
Negli anni 80 i fast food erano sparuti ritrovi per paninari col gel, dislocati nelle metropoli del nord e in qualche annoiata provincia arricchita. Ma il nemico era alle porte. Il campione della fast life che “ci assaliva nelle case” aveva un nome. Anzi un cognome. Non si può leggere a quel manifesto e a quel ribattezzato movimento, Slow Food, senza ricordare che nel marzo del 1986 aprì il primo Mc Donald d’Italia. A Roma. In piazza di Spagna. Bum!
Le polemiche furono feroci. Intense ma brevi. Valentino temeva che gli abiti del suo contiguo atelier s’impregnassero d’odori, Claudio Villa cantava per la romanità perduta, Arbore arrotava la erre nella battaglia in nome dei giusti piaceri.
Oggi in Italia esistono 615 Mc Donald, 390 Mc Drive e 485 Mc Cafè. Sembrerebbe facile dire chi ha vinto. Ma se anche le catene dei fast food, a modo loro, si preoccupano adesso della sostenibilità, farciscono gli hamburger di “prodotti tipici” e inseriscono salubrità verde nei menu, si capisce che i numeri sono solo una delle lenti con cui guardare alla storia.
Dunque, all’inizio, Slow Food era soprattutto questo, rivendicazione di tempo per il piacere. E in effetti sono di quegli anni sia la Guida dei Vini, con il Gambero Rosso (1988), sia Osterie d’Italia (1990), antologie di piaceri da sorbire con lentezza e leggere con parole nuove. Ma il primo snodo cruciale della storia di Slow Food, ricorda Petrini, “è stato nel 1996, a Torino, quando abbiamo dato il via al progetto dell’Arca del Gusto nato dall’esigenza di implementare un lavoro sulla biodiversità”.
Era l’anno del primo Salone del Gusto, al Lingotto, enorme fabbrica Fiat spazzata dal diluvio del declino industriale della città e ricostruita da Renzo Piano a immagine di tempi nuovi ma incerti, spazi per uffici, hotel, centri commerciali e fiere. Al termine di quel Salone – che chi ha vissuto ricorda con la nostalgia e la tenerezza che si deve alle prime volte – Petrini usò, come un neologismo in ambito gastronomico, il termine “biodiversità”, nome collettivo di salumi, verdure, formaggi, vini, pani, oli in affanno nelle tumultuose acque dell’omologazione alimentare. Biodiversità. Le parole suonano più forti quando nessuno le usa e infatti – ricorda il presidente onorario di Slow Food – “non tutti i soci storici furono d’accordo, ancora legati, alcuni, al concetto più familiare di convivialità”.
Ma una volta levata l’ancora, non c’era tempo per ripensamenti. Il secondo momento di svolta, nella interpretazione autentica di Petrini, è del 2004, “anno in cui avvennero due realizzazioni del nostro pensiero, Terra Madre e l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Terra Madre era lo sviluppo logico della connessione tra biodiversità e gastronomia”.
Da qualche anno, dal 2000, Slow Food assegnava un premio legato alla biodiversità. Il primo a Bologna, il secondo a Porto, il terzo a Napoli. Il quarto avrebbe dovuto essere a Torino, una assise con tutti i giornalisti votanti. In una delle riunioni organizzative a Petrini venne l’idea di invitare i premiandi e non (solo) i premianti.
E quanti ne invitiamo? chiese qualcuno. “Diecimila”, disse Petrini nel silenzio raggelato di un ufficio di Bra. In effetti ne arrivarono circa la metà, ospitati gioiosamente nelle case di torinesi, e piemontesi, in piena frenesia da ospitalità preolimpica. Cinquemila più uno, il principe Carlo, che salutò la chiusura della prima edizione dell’”Onu dei contadini“, con sincera empatia e naturale movimento della manina.
Quanto all’Università di Scienze Gastronomiche, che ha impiegato tredici anni per ricevere la dignità di stato con il riconoscimento della classe di laurea, Petrini ci vede il seme di Slow Food gettato nel mondo. Il 50% per cento degli studenti arriva dall’estero e in parte all’estero ritorna, portando con sé, tra l’altro, la multisciplinarietà, la dimensione olistica delle scienze gastronomiche perché “vogliamo creare ponti verso altre discipline”. Il seme nel mondo, sì, e il campo di nuove battaglie: “adesso la sfida è fare in modo che le scienze gastronomiche diventino materia di insegnamento. Entro due o tre anni tutti gli istituti alberghieri diventeranno licei gastronomici. Ma chi insegnerà se non ci sarà un’accademia”?
Quello che certamente gli studenti di Pollenzo avranno tatuato a fuoco tra la pancia e il cervello, è lo slogan del 2005, che è in effetti l’ultima svolta del movimento, “buono, pulito, giusto”. Uno slogan così fortunato che da allora si sente ripetere spesso come una preghiera d’espiazione per buongustai con cattolici sensi di colpa, ma che è invece denso di significati etici e di conseguenze tangibili, dai farmer market alle mense scolastiche.
Il resto della storia è cronaca recente e “molte tematiche a noi care – dice Petrini – sono espresse persino nel circo Barnum della televisione, con i cuochi che mandano segnali sugli orti e sulla sostenibilità dei prodotti”. A proposito dei cuochi, nell’intervento introduttivo di una edizione di tanti anni fa di Milano Golosa (manifestazione gastronomica in cui nel ‘94 si sperimentarono i primi laboratori del gusto) Carlo Petrini disse che nel giorno in cui il cibo avrebbe avuto piena dignità, sarebbe andata molto bene anche per i contadini. “È andata meglio per gli chef”. Ma non è finita.
E intanto il confine tra i cortili delle osterie di Langa e le piazze di Fridays for Future si fa sempre più fluido, Slow Food interloquisce con i Ministeri, fa lobby presso il Parlamento Europeo, sigla convenzioni con Onu e Oms e, insomma, è sopravvissuta con slancio ai Festival dell’Unità nei quali, secondo alcuni, avrebbe dovuto curare la perfetta cottura delle costine. Con orgoglio Petrini dice che “se negli anni ’80 la politica ci snobbava, adesso noi siamo politica”. Ma “dobbiamo restare gastronomi”, conclude come un monito.